Sui libri di Storia Folgaria ricomparve magicamente allorchè prese forma il fronte austro-ungarico. Fortificazioni, guerre di mine e devastazione. Poi, il corso della vita, dopo innumerevoli giri mi riportò a Folgaria. Stavolta per lavoro.
E riscoprii con occhi diversi e diverse proporzioni (poichè nel frattempo sono cresciuto e molto) questo ambiente magico in cui non è l’eccesso a renderlo unico bensì l’armonia; delle forme e dei colori. Non ci sono vette inscalabili nè abissi imperscrutabili, non ci sono passi invalicabili né cattedrali di ghiaccio.La mitezza delle sue forme, l’equilibrio cromatico della natura, i volumi del paesaggio, interminabili quinte di quello che verrà dopo la prossima curva, fanno dell’Alpe Cimbra un luogo difficilmente circoscrivibile, memorizzabile. Dedali di strade e stradine, decine di contrade ne hanno plasmato l’assetto demografico nel corso della storia. Nomi ereditati un po’ dal tedesco e pun po’ dall’italiano formano spesso parole irripetibili e non riconducibili ad altro che non questa nicchia in cui si sviluppò un civiltà per molti versi incontaminata.
La culla cimbra ebbe origine nell’anno 1.000 allorchè arrivarono alcuni coloni dalla Baviera. Ne derivò una lingua ricca di espressioni e vocaboli derivanti dal medio-alto tedesco con influssi di antico tedesco. Il territorio, orograficamente non semplice, l’orgoglio e la dignità delle genti, preservarono fino ai giorni nostri questo “sentirsi” Cimbri. Sull’Alpe, ovunque ti giri, non puoi fare a meno di vedere natura e storia sempre a braccetto, non la storia dei paesi e della gente ma la storia più cruenta, quella che racconta di una guerra che 100 anni fa cambiò l’assetto geopolitico dell’Europa, quella storia che sancì l’uomo come l’animale più spietato della terra, quello che può resistere a tutte le catastrofi con la propria “intelligenza”, a tutti i cataclismi con la propria intelligenza ma che sicuramente s’impiccherà da solo con la medesima corda che si è fabbricato. Quante vittime, quanti mondi rovinati per conquistare 100 metri di fronte per poi riperderlo. E trovo giusto che quello che un tempo era uno dei teatri più sanguinosi sia diventato oggi uno dei più spensierati, quasi a compensare tante atrocità. I sette forti austriaci che bombardavano e venivano bombardati sono ora meta di pellegrinaggio per chiunque si rechi in quei luoghi. Per provare un po’ di vergogna, per commemorare, per non dimenticare. Per comprendere quanto siano importanti certi valori in una democrazia che dovrebbe rappresentarci.
Forse la scuola dovrebbe proprio iniziare da qui, dal rispetto per gli altri prima ancora che verso sé stessi. Le fortificazioni austriache avevano il compito di contrastare l’avanzata de Sud e da Ovest degli Italiani. Era tutte in contatto ottico fra loro mentre il quartier generale era stato posto in località Virti (vicino all’abitato di Lavarone) incuneato fra due pareti profonde di roccia e praticamente irraggiungibile dai colpi di canone italiani. Oggi del presidio non rimane che lo scheletro in calcestruzzo e qualche galleria scavata nella montagna. La natura si è ripresa tutto. Silenziosa e inesorabile cerca ora di stendere un “velo pietoso” su quel paragrafo della nostra storia.
Arrivando ora al Presidio Austroungarico senti i piedi calpestare un pavimento ovattato da muschi e aghi di pino. Le trincee dalle pareti ormai verdi sembrano corridoi in un mondo di fiaba che portano ora ad un elfo, ora a una fata. Il silenzio regna sovrano e in questa pace, oggi, è difficile immaginare i bombardamenti di ieri. Nel mio eterno girovagare per lavoro credo di aver conosciuto veramente migliaia di persone nei luoghi più improbabili. Ero in Arizona, su una strada dimenticata da Dio. Il sole era già calato ma non era del tutto buio e la strada aveva margini indefiniti. Avrei desiderato un fanale supplementare per illuminare il bordo destro della carreggiata. Ad un tratto scorgo un ciclista fermo che mi fa dei segni. Accosto poco dopo e, da buon ciclista quale ero, torno indietro a piedi per chiedergli se avesse bisogno di aiuto. Era un ciclista solitario, con un carrello che conteneva probabilmente tutto il suo esistere. Mi guardò serenamente ringraziandomi con gli occhi e mi rispose: – non grazie, volevo solo fare due chiacchiere.- Mi raccontò in pochi istanti la sua vita nomade da cui traspariva il desiderio di parlare, di capire e di farsi capire. Sono sull’altipiano nei pressi della Malga Valleorsara. La programmazione del mio tempo prevede che debba fare alcuni ritratti alle mucche. Scendo dall’auto col piglio del cittadino pervaso da mille impegni che beve tisane d’ansia e mangia post-it pieni di appunti e cancellature. Scavalco il filo elettrico ed entro in un regno che non mi appartiene. Con un occhio guardo avanti e con l’altro guardo dove metto i piedi…non tanto per le buche… Mi avvicino alle mucche: alcune, curiose, mi si avvicinano. Altre, più timide, se ne vanno. Cerco di imitare il loro verso pensando di fare il simpatico ma mi rendo immediatamente conto di essere come un turista straniero quando scimmiotta col proprio accento una lingua che non gli appartiene.
Cambio tattica ma non avendo la coda devo togliermi di torno le mosche in altro modo. E mi viene in mente il ciclista in Arizona: mi metto ad ascoltarle, cerco di capirne il ritmo e di farmelo bastare. Non c’è voluto tanto tempo per capire che hanno ragione loro. Ho iniziato a guardarle, ad ammirarne la flemma, i lenti movimenti cadenzati, la danza delle mosche e della coda, ascoltavo il rumore dell’erba strappata dai denti e quel lento rintocco del campanaccio. Capii che era una sinfonia antica che ogni giorno si ripete sempre uguale poiché semplicemente è questa la vita che ogni mucca che si rispetti desidera. E credo che quando la mucca sia serena, rilassata e pasciuta, non possa che regalare ogni giorno del buon latte. E iniziai a rispettarne gli spazi e il ritmo cercando di cogliere tutta la loro dignità con la mia macchina fotografica. Non potevo parlare la loro lingua ma sono certo che mi hanno chiesto di essere ascoltate e capite, al pari di quel ciclista solitario che chiedeva alcuni attimi di condivisione, una delle più alte forme di rispetto. Queste mucche, il loro latte e il formaggio che ogni giorno esce dalle malghe disseminate sull’Alpe sono un patrimonio antico di questa terra. Una terra che tanto ha regalato e tanto ha da regalare. E la più alta forma di rispetto che l’uomo possa riservarle è onorarla quotidianamente sfruttandola in modo sostenibile. Ingredienti semplici quelli che la terra regala. Cucina semplice quella dei popoli di montagna. Ma oggi rivisitata in diversi ristoranti dove è possibile andare alla ricerca di antichi e squisiti piatti di cui ormai s’è persa la vera identità. Qui rimane la passione per la cucina di un tempo, povera o ricca che sia. Cibi cotti come un tempo, magari impreziositi da erbette endemiche di questo o quel bosco. E come per magia ritroviamo lustri di storia, cultura, dedizione e orgoglio per la propria terra nei menù dei ristoranti dell’Alpe. Quando entrerete in Alpe Cimbra, fatelo in punta di piedi. Non cercate gli eccessi, non ne troverete. Cercate l’armonia. E vi sazierete.
COME RAGGIUNGERE L’ALPE CIMBRA
Uscendo sulla A22 del Brennero a Rovereto Nord, dopo pochi chilometri, proprio sotto a Castel Beseno, troverete le indicazioni per Folgaria. Salire di mille metri in un batter d’occhi, più velocemente di quanto la fantasia possa adattarsi. Arrivati a Folgaria siete solo all’inizio: l’Alpe si estende per una buona ora di automobile, rivelandovi piccoli segreti ad ogni curva. Buon divertimento e… con il giusto ritmo.